Serena ci regala una preziosa e sentita riflessione su Milano e sulle comunità che l’abitano.
Come vi avevo detto quando ci siamo presentat@ quello che mi aveva stimolato a partecipare era la sensazione che questa città, che non amo, non la conoscessi più, e così ho colto al volo l’idea della camminata notturna.
Già raggiungendovi facendo a piedi da primaticcio al Giambellino la mia sensazione si rafforzava, attraversavo un quartiere a me quasi sconosciuto e mi è venuta voglia di prendere l’abitudine di passeggiare nella periferia milanese e scoprire esperienze, come ad esempio quelle del mercato comunale o delle case verdi che non conosco e di cui ho voglia di capire di più.
Ma l’arrivo in zona Venezia ha fatto riaffiorare in me tutto l’odio che ho per questa città.
Ho sempre frequentato molto il quartiere Venezia. Corso Buenos Aires è sempre stata la merda che è adesso, ma il lazzaretto era un punto di riferimento per la comunità etiope ed eritrea. Molti migranti, provenienti prevalentemente dalle ex colonie italiane, vi si sono stabiliti.
Le vecchie case a corte, la vicinanza con la stazione, le pensioni economiche hanno permesso l’accesso alle abitazioni di questa zona che è diventata il ritrovo della comunità eritrea.
La prima ondata di eritrei ed etiopi in Italia è arrivata negli anni settanta, dopo il colpo di stato del 1974 che ha portato al potere Mengistu Haile Mariam in Etiopia e ha segnato l’intensificarsi del conflitto per l’indipendenza tra il Fronte di liberazione del popolo eritreo (Flpe) e l’esercito etiope.
La comunità eritrea era molto attiva negli anni 70-80, organizzata, unita. Erano gli anni della lotta per l’indipendenza, gli anni del socialismo panafricano, conoscerli e frequentarli ti faceva capire cosa era stato il colonialismo italiano. Altro che italiani brava gente come ci avevano insegnato a scuola!
Erano presenti nelle occupazioni delle case e prima che i socialisti gli concedessero una loro sede si ritrovavano al Leoncavallo (in quegli anni luogo dell’antagonismo milanese), a Bologna ogni anno ad agosto la comunità eritrea organizzava per un mese dei grandi raduni europei per sostenere la guerra d’indipendenza. I ristoranti che aprivano erano collegati con il Fronte di liberazione del popolo eritreo (Flpe) e servivano al suo finanziamento.
Tutto questo si percepiva e si viveva nel quartiere.
Dal 1991 al 1997 in molti tornano in Eritrea nella speranza di ricominciare. Ma il regime di Afewerki non tarda a mostrare il suo volto autoritario: lentamente elimina ogni garanzia democratica usando l’idea propagandistica di una guerra perenne con l’Etiopia, mette in carcere gli oppositori, istituisce la leva obbligatoria a tempo indeterminato, costringe la popolazione ai lavori forzati.
L’indipendenza del 1993, la guerra con l’Etiopia e soprattutto la fuga di molti giovani dalla dittatura militare di Isaias Aferwerki, presidente da 22 anni. Sono le ferite che dividono la stessa comunità milanese: tra chi appoggia il governo dell’eroe dell’indipendenza e chi protesta contro il suo regime, chi si mobilita per aiutare i profughi e chi si oppone perché filogovernativo, chi si sente eritreo e chi eritreo-etiope.
Il quartiere è cambiato, gli eritrei sono cambiati.
Ma il quartiere rimane il ritrovo della comunità eritrea, è sempre qui che gli eritrei di oggi, in fuga dalla dittatura feroce e insensata di Isaias Afewerki, che preferiscono rischiare la traversata attraverso il Mediterraneo che marcire nelle grinfie di un regime protetto anche da occidente, cercano rifugio dopo essere approdati a Lampedusa con una carretta scassata. Sanno che a Porta Venezia una zuppa calda e qualcuno che sa parlare la loro lingua lo troveranno di sicuro.
E’ sempre qui, che nell’ottobre del 2013, la comunità milanese organizza un grossa manifestazione (con la presenza di pochissimi italiani) dopo il naufragio a poche miglia da Lampedusa (366 morti accertati e circa 20 presunti dispersi) e denuncia a forte voce le responsabilità dell’occidente.
Oggi che Porta Venezia, con i suoi bei palazzi d’epoca riqualificati, con i prezzi delle case alle stelle e con i tanti bar di tendenza che animano le notti, è un quartiere alla moda, è facile dimenticare la storia della «casbah di Milano». Eppure basterebbe sedersi ai tavoli di ristoranti come l’Asmara o il Samson, aperti proprio in quegli anni dai primi immigrati, per ripercorrere quei giorni. Oppure camminare per le strade del quartiere di giorno, pieni di negozi, agenzie viaggi, call center… nei giardinetti di Porta Venezia dove si ritrovano i profughi o nelle vie che abbiamo percorso noi di notte dove le attività commerciali e lo spazio stradale antistante sono anche luoghi di ritrovo e informazione, di riaffermazione culturale e di comunicazione.
Scusatemi la lunga divagazione, torno alla nostra passeggiata.
L’arrivo in via Lecco mi ha profondamente infastidito. Non ero assolutamente preparata alla trasformazione che subisce il quartiere di notte. Quella dei bar gay l’ho vissuta come una vera e propria invasione o meglio colonizzazione. Non fraintendetemi non ho nulla in contrario che delle comunità ricerchino dei propri luoghi, ma è apparsa ai miei occhi come quella di una comunità identitaria che nella sua ricerca di riconoscimento fa proprio il gioco della piovra, che accetta di essere controllata e manipolata, da parte di chi può avere l’interesse a conformare e ad anestetizzare gli individui intorno a stili di vita e comportamenti acritici, di passiva accettazione dell’esistente. Chiedere riconoscimento non significa chiedere il riconoscimento di quello che già siamo ma sollecitare un divenire, incoraggiare una trasformazione, ricercare un futuro sempre in relazione con l’altro non spodestandogli il territorio!
Io rimango annichilita quando mi appare l’omologazione, rimango annichilita ogni volta che vedo un movimento che è stato portatore di trasformazioni perdere le proprie caratteristiche e uniformarsi alle tendenze dominanti.
Tutt@ bianch@, rigidamente separat@ tra gay e lesbiche (e i/le trans?), tutt@ ben vestit@ con la loro buona birretta in mano venduta da qualche furbo commerciante gay o lesbica che sia!
Altro che la voglia sovversiva che appariva dal video che ci avete mostrato in via Sammartini!
Ho il rimpianto di non aver fatto tutta la passeggiata, di non aver attraversato altri quartieri, di non aver visto con voi l’alba, di ……. e allora, alla prossima!