FROCIZZIAMO LO SPAZIO PUB(BL)ICO?

Per la prima volta partecipiamo al Pride come collettivo “Marsala”; Siamo partite con l’idea di effettuare delle riprese e delle interviste non per testimoniare questo evento ma per raccontarne alcuni specifici aspetti. Ci interessa capire i motivi che spingono le persone a scendere in strada, il senso del loro “essere qui oggi” insieme ad altre migliaia ma anche addentrarci nelle loro vite private provando a capire in che modo le rivendicazioni del Pride lgbtqi siano portate avanti ogni giorno.

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Tra la musica ad alto volume, il cellulare che suona quasi ininterrottamente, gli amici e le amiche con cui è impossibile darsi un puntello concreto è davvero difficile mantenere alta la concentrazione e portare avanti il nostro progetto iniziale… oltre a tutto ciò, la nostra attenzione è attirata dalle sponsorizzazioni gay friendly che multinazionali come Google, Microsoft, Amazon, Deliveroo e simili realizzano al fine di accalappiarsi i clienti più disparati. Subdole e tentacolari, queste operazioni di pinkwashing invadono lo spazio pubblico mescolandosi tra la folla senza creare nessuno scompiglio. Anzi, probabilmente, nella maggior parte dei casi, trovano approvazione da parte di chi, un po’ ingenuamente, sorride compiaciuto all’idea che anche a Google i froci stiano simpatici: che carini, grazie!

Decidiamo così di porre la nostra attenzione su altro: mettiamo via le videocamere ed iniziamo a raccogliere tutti i volantini che ci capitano sotto mano.

Ma che cos’è il pinkwashing? E soprattutto, perché dovrebbe riguardarci?

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Definita come una “tecnica di comunicazione utilizzata da un’impresa o da un governo per cui, sfruttando la promozione dell’omosessualità, si cerca di modificare la propria immagine e la propria reputazione dimostrandosi progressisti, tolleranti ed aperti”, questa metodologia fuorviante passa spesso inosservata al punto che oggi appare del tutto normale che multinazionali, imprese e governi promuovano l’inclusione e la difesa delle cosiddette “minoranze” nonostante, nella realtà, determinano stili di vita che mal coincidono con quanto vorrebbero raccontare. L’omosessualità, quindi, da evento dirompente e trasgressivo assume oggi il compito di promotore della regolazione e della coesione sociale nel momento in cui diventa la merce di scambio che politici e multinazionali usano per apparire moderni e democratici; sappiamo bene, però, che dietro questa apertura solo apparente si nascondono interessi economici specifici finalizzati non certo alla reale presa in carico delle vite, dei desideri, dei diritti e delle rivendicazioni delle persone lgbtqi quanto ad un consistente ed esclusivo aumento del proprio profitto e del proprio consenso.

Il Pride, inondato di volantini promozionali e gadget commerciali, da strumento di lotta che irrompe nello spazio pubblico sovvertendo l’ordine pre-costituito corre il rischio di diventare sempre di più una merce in ostaggio di se stessa, una sfilata colorata e gioiosa che mercifica e normalizza la portata rivoluzionaria di tutti quei corpi e soggetti che non vogliono assoggettarsi alle regole di un mercato e di una politica che sfrutta, crea divisioni, precarietà ed incertezze nelle nostre vite.

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Come collettivo Marsala, a partire dal 2013 abbiamo iniziato a riflettere sul rapporto tra identità-sessualità-spazio; lo abbiamo fatto visualmente realizzando video, performance ed installazioni. Tre anni di ricerca e sperimentazioni non sono molti, ma se c’è una cosa che abbiamo capito è che lo spazio pubblico è un terreno di lotta che va “difeso” attraverso pratiche di autodeterminazione finalizzate a mettere in discussione la norma, non certo ad allargarne la sua portata totalizzante.

Mettere in discussione la norma non significa essere anormali ma semplicemente essere in ricerca, liber* di occupare spazi, sperimentare relazioni e modalità attraverso cui esprimere noi stess* e le nostre sessualità anche e soprattutto al di fuori dei diritti, dei luoghi e dei momenti in cui ciò ci viene permesso, oltraggiosamente coraggiose di diventare ciò che solo in parte sappiamo.

Alle politiche di pinkwashing continueremo ad opporre narrazioni differenti che puntano alla realtà e non ad una sua demistificazione.